Scrivo questo post da un aereo, da un Ryanair Bari-Bergamo. E lo posto dal lato passeggero di un automobile. Chiedo anticipatamente scusa per la poca linearità dei concetti, che però tenevo a condividere sul mio blog personale, a favore dei miei amici e dei miei lettori. E chiedo scusa per i refusi, che correggerò (segnalatemeli).
È il 14 aprile e sto andando a Brescia a fare una cosa che intimamente dovrebbe riempirmi d’orgoglio (e lo fa, ma va detto a voce molto bassa), ma che pubblicamente mi crea un misto di stupore e imbarazzo.
Sto andando in un collegio universitario a parlare di me. Non delle mie slide, della comunicazione politica, di tutte le tabelle e i dati che amo snocciolare quando mi chiamano a fare docenze, seminari, o aperitivi rinforzati a base di politica.
Sto andando a parlare di me perché mi hanno invitato a parlare di me, ed è questo che mi imbarazza e mi stupisce, perché è un periodo in cui la mia autostima professionale (vi sembrerà assurdo) è in calo. Mi sento uno qualsiasi, senza alcun particolare valore aggiunto, facilmente sostituibile.
Io non sono un idraulico, non sono indispensabile. Finalmente me ne sono accorto, ed è un gran bene, ma certe volte il passaggio dalla liberazione dalle tue aspettative irrealistiche al “cosa ci faccio qui?” è molto sottile e fragile.
Eppure, c’è qualcuno che pensa che la storia della mia vita possa servire a studenti alla ricerca della loro strada, e dunque eccomi qui, saltellando tra un aereo e l’altro, con la sveglia puntata alle 5 di domattina in modo da essere in ufficio alle 11 e salvarmi così dal cazziatone dei miei capi (che giustamente mi vorrebbero anche un po’ tra loro, dato che mi pagano).
Il 14 aprile 2013 ero su un aereo, un Delta Airlines (se non ricordo male) Roma-Washington DC. Andavo a partecipare all’esperienza formativa più clamorosa della mia vita, l’International Visitor Leadership Program del Dipartimento di Stato americano.
È stata una cosa che intimamente mi ha riempito d’orgoglio (e questo è genericamente più accettabile), ma che pubblicamente mi creò un misto di riconoscenza nei confronti di chi mi volle lì, e generale percezione di inadeguatezza. Il mio inglese zoppicante e un curriculum solido, ma non ancora così solido come quello della gran parte dei miei compagni di viaggio, mi fece sentire ancora una volta, uno dei tanti. Un’altra liberazione, anche al di là dell’Oceano, ma ancora una volta quella stessa sensazione di “cosa ci faccio qui?” a cui riuscii a dare una risposta molto semplice e banale: a imparare, con avidità, cosa vuol dire stare al mondo.
Non credo né nella fortuna né nel caso né in qualche ordine superiore divino o pagano. Credo nel lavoro e nella testardaggine, nella disciplina e nella capacità di resistenza, nella motivazione e nella passione. Però è singolare come questo 14 aprile sia così tanto simile a quello dell’anno scorso, anche se sto andando a Brescia e non in America, anche se sto andando a insegnare invece che a imparare.
Mi sento piccolo piccolo come allora, a metà strada tra il “cosa ci faccio qui” e il “che figata”. Ripenso a una conversazione di stamattina con una delle persone che stimo di più dal punto di vista professionale (e a cui inizio ad affezionarmi assai), che mi dice “ho fatto il tuo nome al mio capo” (e vi assicuro che “il suo capo” è uno di quei “capi” da far girare la testa). Anche se questo contatto non porterà a nulla, è stata comunque una notizia fantastica, che almeno per oggi, mi fa sentire speciale. Piccolo e speciale.
p.s. domani papà compie gli anni. Papà, grazie. Questo post è dedicato a te.