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Fotografia del 7 agosto 2019 – Cortisolo

7 Ago

Cosa ho fatto in questa stagione? Ho trovato un modo per raccontarvelo in una frase: ho provato a ridurre il cortisolo.

Il cortisolo è l’ormone che le ghiandole surrenali producono quando gli esseri umani si trovano in una situazione di stress, e serve a dare al corpo quel genere di risposte psico-fisiche necessarie ad affrontarlo. La produzione di cortisolo segue, in teoria, i normali bioritmi: al mattino la produzione è maggiore, perché si è più riposati e il ciclo vitale prevede un maggiore impegno da parte dell’organismo. Di sera questa produzione dovrebbe calare, perché il corpo ha bisogno di riposo e le fonti di stress dovrebbero essere state allontanate. Quando questo ciclo naturale viene interrotto, iniziano i problemi: difficoltà a trovare sonno, ipertensione, rischi cardiovascolari, produzione di adrenalina in contesti e in momenti in cui bisognerebbe invece essere rilassati.

Ora che posso guardare gli ultimi 11 mesi sotto forma di bilancio complessivo e non di vita quotidiana, posso dire che avevo involontariamente individuato un filo rosso nelle mie scelte: eliminare qualsiasi forma di stress non richiesto. È una sfida complicatissima, con battaglie vinte e perse tutti i giorni. Non ho una vita banale, non ho un lavoro banale: convivere con lo stress è per buona parte delle mie giornate un obbligo, non una scelta. Per questo motivo è assolutamente fondamentale lavorare su tutto ciò che c’è attorno all’obbligatorio. Lì il cortisolo, banalmente, ci deve essere il meno possibile.

Cosa ho fatto e sto provando a fare? Moltissime cose. Provo a elencarvele, sperando che l’elenco non risulti ansiogeno e risulti di per sé un produttore di cortisolo per chi sta leggendo. Sarebbe veramente un effetto indesiderato. Prima di soffermarmi nell’elenco, perciò, dico due cose: 1. è un aggiustamento lunghissimo e progressivo, in cui bisogna assolutamente evitare la ricerca della perfezione e in cui bisogna essere straordinariamente tolleranti nei confronti degli errori, quelli degli altri ma soprattutto dei propri. Il perfezionismo è probabilmente una delle fonti più naturali di cortisolo. 2. Ognuno ha la sua strada: io racconto la mia senza l’ambizione di essere seguito, ma soprattutto per condividere un’esperienza che, alla fine dei conti, posso definire positiva.

a. Il lavoro sulle emozioni

Quest’anno mi è capitata una quantità di imprevisti legati alla mia vita privata che mi potrebbero bastare per tutta la vita. Alcuni molto brutti, alcuni molto belli. Ho lungamente riflettuto su quello che è successo, anche perché non ho mai amato attribuire tutte le responsabilità dei meriti a me stesso e dei demeriti agli altri. C’è sempre qualche mio errore nelle cose che non funzionano e, ancora più indiscutibile, c’è sempre una grande parte di merito negli altri nelle cose che funzionano (adottare questo approccio, di per sé, mi fa calare la produzione di cortisolo).

Da queste esperienze ho capito quanto fosse impreciso il mio rapporto con le emozioni, e quanto ci dovessi lavorare ancora. L’errore principale che facevo, e che in buona misura continuo a fare, è l’aver tagliato (forse è più corretto dire ‘evitato’) i picchi emotivi molto alti e molto bassi. Ho ancora diversi problemi con la gioia pura e il dolore puro e la mia tendenza a essere una persona calma non sempre è un elemento positivo, ma spesso è un atteggiamento di fuga proprio da quei picchi. Smusso non solo perché sono una persona resistente, ma anche per sbrigarmela prima. Me ne sono reso conto negli ultimi tempi, e scoprire che uno dei tuoi maggiori pregi è in realtà uno dei tuoi peggiori difetti (potenzialmente) è destabilizzante, ma averlo capito è liberatorio e poterci lavorare ancora di più. Ho capito di aver lungamente sbagliato da questo punto di vista, ho capito che la marcia sarà lunga, che scivolerò, inciamperò, avrò paura. E poi ancora. Ma ho capito che non si può vivere bene tagliando selettivamente i due estremi di questa curva.

L’ingresso di Isabella nella mia vita (l’imprevisto più bello che mi potesse capitare) mi sta molto aiutando a comprendere cosa mi sono perso, cosa ho sbagliato, e quanto sia bello, complesso ma assolutamente sano non avere paura delle estremità, dei colori, della pienezza.

b. Il lavoro sullo stress nudo e crudo

Qualche mese fa mi sono iscritto alla newsletter di Medium, la quale insegue i lettori e dà suggerimenti sulla base degli articoli letti il giorno prima. Col tempo mi sono facilmente reso conto che le mie letture ruotavano attorno a tre argomenti: self-improvement, produttività, antropologia nell’accezione più larga del termine (da come Twitter cambia le nostre vite ai racconti di persone affette da patologie invalidanti, saltando qui e là alla ricerca di storie personali che mi dessero ispirazione). La newsletter gratuita di Medium fa però leggere un numero limitato di articoli e quindi, alla fine, dopo lunghi pensieri (che riassumerei più o meno così: ha senso spendere soldi per avere qualcosa in più da leggere, dato che non ho il tempo di leggere tutto?) mi sono abbonato al servizio di lettura illimitata degli articoli.

Spero di non offendere nessuno se dico che questi 50 dollari l’anno, di cui godo saltuariamente – perché, per l’appunto, non riesco a leggere la newsletter tutti i giorni – mi stanno facendo risparmiare sullo psicanalista (da cui comunque, prima o poi, andrò). Una cosa che ho letto in uno di questi articoli, che magari a voi potrà sembrare banale ma che per la qualità della mia vita sta avendo un valore nettamente superiore al costo dell’abbonamento, è cosa fare quando lo stress arriva al punto di buttare per aria la razionalità. Non so cosa succede a voi quando il cortisolo comanda al posto vostro: a me succede che mi si blocca la capacità di prendere decisioni. Non so su che cliente lavorare, a quale mail rispondere, quale priorità è davvero tale. Questo articolo suggeriva di alzarsi dalla sedia, prendersi dieci minuti e ragionare su un punto specifico: qual è l’origine dell’innesco? Qual è la cosa che ti fa stressare di più tra quelle che ti hanno fatto stressare? Una volta focalizzata, affronta prima quella, solo quella, e ignora tutto il resto. Chiusa la valvola, le cose miglioreranno automaticamente. A me sta funzionando esattamente così.

c. Imparare a litigare

Se non avessi usato la frase sul cortisolo avrei riassunto la stagione 2018-2019 così: “ho imparato a litigare”. Apparentemente questa frase è foriera di disastri, ma è assolutamente vero il contrario: basta cambiare il punto d’osservazione. Un altro mio grande difetto (su cui in verità ho fatto molti progressi, anche a causa di ciò che di bello e di brutto mi è successo) è la tendenza a zittirmi quando sono incazzato, e soprattutto a zittirmi con la persona che mi ha fatto incazzare. Ho sempre puntato sul tempo che cura le ferite, e a volte ha funzionato, ma col tempo ho anche scoperto che le ferite non curate lasciano cicatrici e sedimenti, e la cura attraverso il tempo che passa è dunque insufficiente. Mettendo insieme i primi due punti di questo elenco sono giunto alla conclusione più naturale. Una persona ti ha fatto incazzare? Diglielo. Una persona ha fatto una cosa figa? Diglielo uguale. Vuoi bene a una persona e non glielo dici mai? Diglielo uguale. Sei deluso da qualche specifico comportamento? Esternalo. C’è qualcosa che lavora dentro di te e che ti mangia energie che potresti spendere più proficuamente per altro? Parla, scrivi, urla, litiga. Sputa fuori. Questo cambio di atteggiamento porta inevitabilmente a nuovi tipi di stress: manifestare il tuo disappunto a qualcuno può generare una reazione uguale e contraria (se non peggiore). Ma buttare fuori le proprie emozioni negative invece che tenersele in pancia fa produrre molto meno cortisolo rispetto alla gestione di un litigio, chiaramente a condizione che si sappia come litigare. Non so se sono ancora bravo (e il più delle volte mi annoio a farlo), ma penso che litigare bene consista (in sintesi) nel dirsi la verità, non considerare il tuo interlocutore più scemo di te, non pensare che l’altro non possa capire, andare alla ricerca dei punti di unione quando la lite sta allargando troppo le distanze invece di cercare l’escalation, riconoscere le ragioni nei punti degli altri. È faticoso, certo. Ma se si diventa bravi, assomiglia più a un ballo che una lotta.

d. Eccitanti e tranquillanti

Dopo tanta filosofia, una scoperta super-pratica: la curva del cortisolo si può manovrare (per periodi relativamente brevi di tempo) aiutandosi un po’. Cannabis legale quando c’è troppa carne al fuoco, té o Red Bull quando c’è bisogno di far tardi o combattere contro il sonno. Lavoro di più, lavoro meglio. L’importante, come sempre, è non esagerare (ed ecco la zampata del team anziani) e non pensare di essere invincibili. Il corpo lancia segnali inequivocabili e quando lo fa bisogna fermare tutto, e subito.

e. L’eterna lotta tra lo scrivere e il leggere

Questo è un punto su cui sono ancora poco lucido, soprattutto quando sono stanco. So che se non studio sono fottuto, so che se non scrivo sono fottuto uguale. Se non studio sono fottuto perché il mondo va veloce, se non scrivo sono fottuto uguale perché la scrittura è una delle forme più efficaci di liberazione delle tossine e di organizzazione del pensiero. Troppo spesso indugio in modo esclusivo in una delle due modalità, e quando lo faccio mi manca moltissimo l’altra. Trovare un compromesso sarà una delle sfide più urgenti e complicate della prossima stagione.

f. Il sonno, il miglior amico dell’uomo

Per finire: c’è qualcosa di più potente della lettura, della scrittura, dell’abbonamento a Medium, dell’esplorazione dei picchi emotivi, dello sputare fuori ciò che fa girare a vuoto, della ricerca del trigger che paralizza quando si è troppo stressati, del litigare con costrutto, dell’alcol, dei videogiochi, di Netflix, della tv, del divano, degli amici: è il sonno. Non conosco nessun altro stabilizzatore dell’umore altrettanto potente. Ho concluso volontariamente giornate complicate andando a dormire alle 21 e il giorno dopo ero come nuovo. When in trouble, go to bed. Non prima di aver fatto il possibile per ridurre il cortisolo in eccesso, naturalmente, altrimenti col cazzo che si dorme.

La stagione 2018-2019 è finita. Sto meglio di prima. Per certi versi molto meglio. E questa, alla fine, è l’unica cosa che conta. Ci saranno giornate faticose, difficili, di merda. Sbaglierò, non farò nulla delle cose che ho appena detto di aver imparato, gestirò male le emozioni, starò zitto invece di parlare, non scriverò, non leggerò. Ma ora so meglio cosa sbaglio, so meglio dove devo migliorare, so meglio dove andare a cercare le informazioni per continuare a lavorare su me stesso, so meglio cosa è importante e cosa no. Sono pronto a sbagliare producendo sempre meno cortisolo rispetto a prima. Buona estate.

Fotografia del 22 luglio 2014 – Irripetibile

22 Lug

Anticipo di qualche giorno le riflessioni di fine stagione (sì, perché non lavoro ad anni solari, lavoro in stagioni calcistiche, e dunque questo è l’epilogo della stagione 2013-2014) perché sono già mature, perché voglio mettere un punto. Perché voglio lanciarmi nell’estate, nel silenzio. Perché ne ho proprio bisogno.

Questo è stato un anno irripetibile.

Irripetibile perché non si potrà più ripetere. Perché è stato un anno troppo bello per essere vero.

Ho lavorato a campagne elettorali importantissime, vincendone tante e perdendone qualcuna.
Ho gioito come un pazzo quando si è vinto e sono rimasto catatonico quando si è perso. Prendo le cose ancora troppo sul personale, non so quanto sia sano, ma allo stesso tempo non ho intenzione di cambiare.
Ho messo a posto la mia autostima, spero definitivamente. Ho tirato su quella personale e, ben più importante, ho tirato in basso quella professionale. Ho finito, spero per sempre, con la stagione “cambio il mondo tutto da solo”.
Sono riuscito a far crescere le poche cose che amo e, spero, a far star bene le pochissime persone che amo.
Ho fatto cadere un sacco di cascami, e ora sono più leggero.
Ho scritto, meno di quanto avrei voluto, ma in posti sempre più prestigiosi.
Ho macinato migliaia di chilometri, ho parlato a centinaia di ragazzi e ragazze. Spero di aver detto qualcosa di interessante.
Ho lavorato con persone molto più brave, sorridenti e competenti di me. Da loro ho ascoltato tanto, e ho imparato ancor di più.
Ho sentito sulla pelle la fiducia di tante persone, che mi hanno dato voce, spazio, tempo. A loro sono grato, ogni giorno di più, perché è sempre più difficile avere fiducia in qualcuno, dare fiducia a qualcuno. È più facile cedere al cinismo, alla rassegnazione, all’homo homini lupus.

È stato un anno irripetibile perché io non voglio che si ripeta più.

Ho fatto troppo. Troppo di tutto. Troppo lavoro. Troppi viaggi.
Troppe sveglie troppo presto, troppe notti troppo tardi.
Troppi interventi. Non ha senso parlare così tanto. Non ho così tante cose interessanti da dire.
Troppe responsabilità, troppo stress.
Troppo cibo. Troppo poco sonno.
Troppo poco tempo per me.
Troppo poco mare, troppa poca campagna.
Ho visto più medici negli ultimi 9 mesi che nei precedenti 29 anni.
Non mi sono mai divertito così poco a fare il mio lavoro. E se io non mi diverto, non sono ugualmente utile alla causa.
Ho visto i miei limiti, li ho sentiti. Ora li conosco. Ora mi conosco meglio.
Ora so meglio cosa voglio e cosa non voglio.

So che un anno come questo va vissuto, e sono contentissimo di averlo vissuto esattamente così com’è stato. Se fosse stato diverso, meno emozionante, meno gratificante, meno faticoso, non sarei qui dove sono ora, a provare quello che sto provando. Quest’anno doveva andare esattamente com’è andato. Proprio per questo so che non ne voglio un altro così.

Qualche giorno fa sono stato invitato a parlare esplicitamente del mio futuro. Di dove voglio andare. Di come mi immagino tra 5, 10 anni.
Ho improvvisato un incipit che mi è scappato dalla bocca, semplicemente perché è la verità: “Ho 30 anni, non so lavare, non so stirare, sono un bambino, non voglio crescere, mi voglio solo divertire.”

Questo sono io. Su questo non arretro di un millimetro.
Tutto il resto cambierà.
Buona estate. Per chi bazzica l’Adriatico meridionale: ci si vede in giro.

(per chi mi vuole bene e dovesse allarmarsi: nessun timore, è tutto sotto controllo. Vado verso il futuro col sorriso)

Fotografia del 14 aprile 2014 – In volo

14 Apr

Scrivo questo post da un aereo, da un Ryanair Bari-Bergamo. E lo posto dal lato passeggero di un automobile. Chiedo anticipatamente scusa per la poca linearità dei concetti, che però tenevo a condividere sul mio blog personale, a favore dei miei amici e dei miei lettori. E chiedo scusa per i refusi, che correggerò (segnalatemeli).

È il 14 aprile e sto andando a Brescia a fare una cosa che intimamente dovrebbe riempirmi d’orgoglio (e lo fa, ma va detto a voce molto bassa), ma che pubblicamente mi crea un misto di stupore e imbarazzo.

Sto andando in un collegio universitario a parlare di me. Non delle mie slide, della comunicazione politica, di tutte le tabelle e i dati che amo snocciolare quando mi chiamano a fare docenze, seminari, o aperitivi rinforzati a base di politica.

Sto andando a parlare di me perché mi hanno invitato a parlare di me, ed è questo che mi imbarazza e mi stupisce, perché è un periodo in cui la mia autostima professionale (vi sembrerà assurdo) è in calo. Mi sento uno qualsiasi, senza alcun particolare valore aggiunto, facilmente sostituibile.

Io non sono un idraulico, non sono indispensabile. Finalmente me ne sono accorto, ed è un gran bene, ma certe volte il passaggio dalla liberazione dalle tue aspettative irrealistiche al “cosa ci faccio qui?” è molto sottile e fragile.

Eppure, c’è qualcuno che pensa che la storia della mia vita possa servire a studenti alla ricerca della loro strada, e dunque eccomi qui, saltellando tra un aereo e l’altro, con la sveglia puntata alle 5 di domattina in modo da essere in ufficio alle 11 e salvarmi così dal cazziatone dei miei capi (che giustamente mi vorrebbero anche un po’ tra loro, dato che mi pagano).

Il 14 aprile 2013 ero su un aereo, un Delta Airlines (se non ricordo male) Roma-Washington DC. Andavo a partecipare all’esperienza formativa più clamorosa della mia vita, l’International Visitor Leadership Program del Dipartimento di Stato americano.

È stata una cosa che intimamente mi ha riempito d’orgoglio (e questo è genericamente più accettabile), ma che pubblicamente mi creò un misto di riconoscenza nei confronti di chi mi volle lì, e generale percezione di inadeguatezza. Il mio inglese zoppicante e un curriculum solido, ma non ancora così solido come quello della gran parte dei miei compagni di viaggio, mi fece sentire ancora una volta, uno dei tanti. Un’altra liberazione, anche al di là dell’Oceano, ma ancora una volta quella stessa sensazione di “cosa ci faccio qui?” a cui riuscii a dare una risposta molto semplice e banale: a imparare, con avidità, cosa vuol dire stare al mondo.

Non credo né nella fortuna né nel caso né in qualche ordine superiore divino o pagano. Credo nel lavoro e nella testardaggine, nella disciplina e nella capacità di resistenza, nella motivazione e nella passione. Però è singolare come questo 14 aprile sia così tanto simile a quello dell’anno scorso, anche se sto andando a Brescia e non in America, anche se sto andando a insegnare invece che a imparare.

Mi sento piccolo piccolo come allora, a metà strada tra il “cosa ci faccio qui” e il “che figata”. Ripenso a una conversazione di stamattina con una delle persone che stimo di più dal punto di vista professionale (e a cui inizio ad affezionarmi assai), che mi dice “ho fatto il tuo nome al mio capo” (e vi assicuro che “il suo capo” è uno di quei “capi” da far girare la testa). Anche se questo contatto non porterà a nulla, è stata comunque una notizia fantastica, che almeno per oggi, mi fa sentire speciale. Piccolo e speciale.

p.s. domani papà compie gli anni. Papà, grazie. Questo post è dedicato a te.

Fotografia di fine 2013 – Il mio unico proposito per il 2014

27 Dic

Ogni volta che abbandono un anno solare per arrivare in quello successivo decido di impegnarmi per perseguire un mio personale obiettivo di metodo.

Il 2013, nelle mie intenzioni, doveva essere l’anno della qualità. Dovevo sfrondare e limitarmi a ciò che valeva davvero. Sono abbastanza soddisfatto del risultato finale, ma mi sento comunque in hangover.

Ho fatto troppo di tutto. Di cose belle e di cose brutte. Sono andato troppo forte. Ho troppe volte aggiornato i miei limiti al rialzo. Può andar bene un anno, ogni tanto, da “giovani”, ma non può funzionare come stile di vita. Anche perché, se brucio tutto ora, poi non avrò più stimoli, ambizioni, desideri forti. E senza passione nelle cose che faccio, io di fatto non funziono. La gioia che ho provato oggi nell’andare a fare la spesa, l’aiutare Manu per una parte infinitesimale, è un segnale troppo forte per poter essere ignorato: ho una fottuta voglia di normalità, di stare in pantofole e sparire dalla circolazione (ancor di più, direbbe qualcuno).

C’è stato un passaggio interessante alla fine di quest’anno: il silenzio che mi sono autoimposto durante la campagna elettorale di Renzi. Quel silenzio, come quasi tutte le forme di disciplina, mi ha dato una lezione profondissima e che di fatto mi ha suggerito cosa voglio dall’anno prossimo.

Tante volte mi sono autocensurato dopo aver scritto qualcosa. Dovevo solo spingere invio e non l’ho fatto. Mi fermavo, perché mi rendevo conto che stavo violando una regola che mi ero imposto. Non vi nascondo che è stato faticoso, e sarà sempre faticoso soprattutto per chi, come me, mira in modo un po’ (troppo) idealista alla piena libertà, in particolare di espressione. Allo stesso tempo rifarei tutto, perché è stato giusto, per la mia reputazione di professionista e la mia dignità di persona.

Ma rifarei tutto soprattutto per un motivo. Molto spesso, pochi minuti dopo aver deciso di non condividere le mie emozioni e i miei pensieri con il mondo, pensavo tra me e me: “Ma chi ti caca?” “Ma che tono hai?” “Ma non pensi che a furia di pontificare diventerai insopportabile?”. Se mi posso permettere un consiglio di gestione dei propri spazi sui social media, direi che tutto ciò che può indurre di voi stessi a pensare: “Hai rotto il cazzo” può essere tranquillamente cestinato.

Parallelamente, ho ripensato a tutto ciò che ho scritto, detto, analizzato, discusso, riflettuto, elaborato, e ho ripensato a tutto il lavoro di scrittura, pensiero, analisi, discussione, riflessione che ogni giorno, a ogni ora, è prodotto in Italia da autorevoli menti e da uomini della strada di ogni forma e dignità. Poi ho riflettuto sul rapporto tra l’elaborazione e la realtà e ho pensato che ci siamo detti tante cose, ma che tutto quello che ci siamo detti ha inciso veramente molto poco sul presente e sul futuro dell’Italia, o comunque dei posti dove siamo, viviamo, cerchiamo la felicità.
Dunque, parallelamente a “Hai rotto il cazzo” è emerso un altro elemento di autoregolazione: “Ma a che serve dirlo?”. Se la risposta è “a niente”, come la stragrande maggioranza delle cose che diciamo, forse sarà il caso di fare meno rumore.

Eccoci qua. Il mio proposito del 2014 è fare meno rumore. Esserci meno. Non esserci proprio. In teoria dovrei fare il contrario: il 2013 è stato un anno eccellente dal punto di vista professionale, dovrei insistere, dovrei battere il ferro. In fondo arrivo a 30 anni, è ora che mi gioco la carriera, che devo porre le basi per costruire il resto della mia vita. E invece no, proprio non mi viene. Non so dirvi se è semplice stanchezza (e consapevolezza che il 2014 sarà tosto almeno come il 2013. Bisogna risparmiare la gamba, come nelle maratone), se è disillusione, se sono cambiate le priorità, se è l’inizio di una crisi depressiva, se è crescita fisiologica, se è consapevolezza dei propri limiti. Ma questo sono io ora, e questo voglio essere io, almeno per il prossimo anno.

Fallirò in parte o del tutto, come è ovvio. Alla fine scriverò, perché senza scrivere sto meno bene. Prenderò posizione quando posso, perché fare il terzista non mi riesce proprio. Ma cercherò di amare e non rompere il cazzo (citando una meravigliosa frase incrociata quest’anno) nel migliore dei modi possibili.

Chiedo anticipatamente scusa a chi non condivide, a chi mi troverà (ancora) più noioso, a chi pensa che io non me lo possa permettere. E chiedo scusa in ritardo a chi mi conosce e pensa da tempo che avrei dovuto prendere questa strada. Dai che ci sono arrivato, quasi da solo.

Buon 2014. Enjoy the silence.

Fotografia del 3 settembre 2013 – 276 giorni

3 Set

Due settembre 2013. Otto giugno 2014.

L’anno scorso, di questi tempi, non potevo immaginare ciò che mi aspettava, perché non conoscevamo le scadenze, le date, gli impegni di lavoro, non sapevo quando sarei andato negli Stati Uniti. Non sapevo che avrei avuto tantissimo lavoro da smazzare. E quindi iniziavo con uno spirito molto diverso da quello di quest’anno.

Questa volta ho una data di inizio e una data di fine. E la consapevolezza, la certezza che lungo questi nove mesi e sei giorni sarò sempre in campagna elettorale. Anzi, in campagne elettorali. Bari, Europa, amministrative, Regionali, PD, forse congresso, forse politiche. Non so ancora cosa farò e se farò tutto, non so ancora quanto sarò dentro queste macchine, ma ho la certezza che qualcosa succederà.

L’agenda dice già che da qui a fine 2013 ho solo tre weekend liberi. Questa è la musica. E non è troppo diversa da quella della scorsa stagione. Non mi aspetto di viverla più facilmente, non ci sono i presupposti. In agenda non ci sono ancora viaggi all’estero: mi piacerebbe farne almeno uno (per lavoro, of course), ma se non dovesse accadere vorrà dire che gestirò le mie energie un pochino meglio.

Quando hai date certe puoi immaginare l’inizio e la fine. Puoi organizzare meglio il tuo tempo. Anche se è poco. Anche se non sai cosa ci sarà dentro. Anche se non conosci il percorso. Quindi sono contento di sapere che la prospettiva è questa. Sarà faticosa, ma non importa. Lavorare, di questi tempi, è sempre qualcosa che ti deve portare ad avere un atteggiamento positivo verso il mondo.

Metto su l’abito mentale del maratoneta. Serve salvare la gamba, serve regolarità. Niente eroismi, né cercati né involontari. Niente sforzi che non si possono reggere. Un altro anno come quello passato non lo reggo. Non lo reggo perché fisicamente non ce la faccio, perché mentalmente mi devo dare tregua.

Cambierò atteggiamento: basta prove di fatica. Serve fare un passo alla volta. Non esiste più l’angolo del riposo assoluto, non è mai esistito e ora ne sono perfettamente cosciente. Ecco perché, come già scrivevo ieri in questo blog, la mia testa deve provare a prendersi dieci minuti di ferie al giorno, tutti i giorni.

L’anno scorso, di questi tempi, scrivevo il mio buono proposito per la stagione 2012-2013: conservare quello che avevo. Restare fermi mentre il mondo (l’Italia in particolare) arretrava mi sembrava già un traguardo enorme. È andata meglio del previsto. Ho fatto un po’ di passi in avanti verso la mia utopia: vivere scrivendo, e scrivendo sereno, consapevole del fatto che le mie parole non causeranno danni a nessuno, se non (eventualmente) a me stesso. La chiamo utopia perché non credo di essere in grado di arrivarci, ma mi piace avere questa prospettiva di vita. Sono ancora molto lontano dall’obiettivo, ma sono un po’ più vicino rispetto a dodici mesi fa.

Proprio perché l’anno scorso è andata meglio di come immaginassi, voglio confermare il proposito: sarei molto contento di essere qui, fra un anno, nella stessa situazione di oggi. Niente di più e niente di meno. Coltivando la felicità nelle piccole cose piuttosto che cercando il grande numero, che forse non fa più nemmeno parte delle mie corde umane e professionali.

Ma se mi fermassi qui, a questo pacifico andare come ambizione, non vi racconterei tutta la verità. La verità è anche un’altra: a marzo arrivo a 30 anni. Quel tre mi fa abbastanza girare i coglioni. Farò pure la vita di un quarantenne (difficile smentirlo), ma dentro coltivo ancora l’ambizione di essere un ragazzo, di vivere da ragazzo. Quel tre ti inchioda. Ti costringe a guardarti allo specchio. Attorno a me si sposano, fanno figli, accendono mutui o sognano di fare tutto questo. Da queste parti si continua a parlare di massimi sistemi e si continua (sobriamente, come i tempi impongono) a sognare di lasciare un segno vero in questo mondo, di fare qualcosa di utile, davvero utile, nell’unica vita che ho: questa.

Ed è per questo che la stagione 2013-2014 mi vedrà in perenne tensione (niente di grave, è una tensione assai piacevole): da un lato, la ricerca disperata della normalità, la volontà immutata di fare il mio percorso verso quell’utopia, anche se non la dovessi raggiungere mai. Dall’altro, la consapevolezza che a 30 anni sei davvero diventato grande, o almeno questo è quello che pensa chi ti sta intorno.

Il secondo giorno di questa maratona sta per finire. Me ne mancano solo 274. Almeno 274.

Chiudo con Seamus Heaney, poeta e scrittore nordirlandese morto il 30 agosto. Non lo conoscevo fino a quando non ho letto che non c’era più. In questi giorni ho letto un po’ di sue poesie, la sua storia, l’importanza del suo pensiero per la sua Irlanda. E ho trovato una frase perfetta, soprattutto per questo tipo di post, di flussi di coscienza, che sono uno dei più profondi atti di egoismo che abbia mai concesso a me stesso.

“Ho sempre associato il momento dello scrivere con un momento di sollievo, di gioia, di inaspettata ricompensa.” 

Fotografia del 2 settembre 2013 – Dieci fotografie che riporto a casa dopo l’estate

2 Set

1. Cade definitivamente un grande mito con cui ho cercato di giustificare alcuni miei strappi lavorativi: “tanto ad agosto mi riposo, dormo, recupero”. La mia fantastica vita e il mio fantastico lavoro non prevedono momenti di tregua, fino a quando sarò così determinato a coltivare l’ambizione di far bene ciò che faccio. In fondo lo sapevo, l’estate scorsa avevo avuto le prime inequivocabili avvisaglie, ho voluto ignorarle da inguaribile ottimista. Non funziona. Ora è davvero ufficiale. Alzo bandiera bianca, con serena rassegnazione (più serena che rassegnazione) fino a nuove disposizioni.

2. Il punto 1 non poteva che essere in cima alla lista perché ha portato una serie di riflessioni a cascata. A differenza degli ultimi agosti, in cui andavo a cercare risposte esistenziali su me stesso, su quello che volessi fare da grande, sulle priorità della vita (sfruttando uno dei grandi lussi dell’estate: poter pensare), questa volta mi sono avvicinato alle vacanze con ambizioni molto più modeste: volevo stare bene con le persone giuste. Obiettivo raggiunto. Nel frattempo però ho realizzato cos’è, per me, il significato della parola “vacanza”. Contrariamente ai teorici del “stacco”, “spengo il cervello”, “non tocco Facebook per tre settimane” (ma perché, vi costringono durante il resto dell’anno?), le mie vacanze sono quei momenti, quelle ore, quei giorni in cui posso decidere liberamente come passare il mio tempo. Senza dover dar conto a nulla e a nessuno. Poter scegliere: queste sono le mie ferie. E dunque devo rimodulare la mia vita, cercando di andare in ferie qualche minuto al giorno, tutti i giorni della mia vita, evitando di confidare in qualche presunta ancora di salvezza temporalmente definita in momenti dell’anno in cui, peraltro, si suda da fermi.

3. Ma passiamo alle cose serie. Dopo almeno cinque anni ho fatto un bagno al mare con mamma e papà e mi sono divertito tantissimo. La cosa più bella, così bella che quasi mi metto a piangere qui davanti allo schermo nel raccontarvela, è che si sono messi a parlare di un libro che ho comprato e che non ho ancora iniziato a leggere. Si chiama “Dio non è grande”, di Christopher Hitchens. Papà non crede, io nemmeno, mamma sì. Ne è venuto fuori un dibattito stupendo, con papà che sottolineava la durezza degli argomenti di Hitch e mamma che ribadiva quanto quel libro fosse illuminante sulle grandi truffe delle religioni nel mondo, e quanto allo stesso tempo quella lettura così distruttiva rinforzasse la sua fede, invece che indebolirla. So di essere tremendamente fortunato ad avere una famiglia così e chiedo scusa se ogni tanto lo faccio emergere così tanto.

4. Non ho toccato la Playstation neanche quest’anno. Che merda. Autoinganno la mia deriva anzianoide pensando al videoproiettore a Villa Frisola per i Mondiali di calcio 2014 (sì, abbiamo rinnovato l’affitto fino al 31 agosto 2014. E io ho passato molte ore a spiegare a tutti gli ospiti quanto questo affitto mi abbia migliorato la vita)

5. Lo sport ufficiale dell’estate 2013? Le bocce, senza dubbio. Giocateci senza indugio. Pare che in Francia sia molto cool. E poi “la bocciofila” è “la casalinga di Voghera” di sinistra. (noi siamo stati post-ideologici e abbiamo comprato sia Chi che Vanity Fair, tutte le settimane). Se ci sono singoli o squadre che hanno paura a rivelare le loro passioni per il gioco delle bocce, sappiate che qui trovate massima apertura e condivisione affettiva.

6. Il volto degli ospiti, specie se extra-Puglia, che vengono da noi a pranzo o a cena e vengono letteralmente invasi di cibo esageratamente buono vale, da solo, la prospettiva di rifarlo con uguale passione e uguale mole inumana di antipasti anche nel 2014. A tal proposito, essendo io capace solo di mangiare e di guidare in direzione del supermercato, ringrazio vivamente tutti i miei coinquilini che hanno preparato la brace, lavato i piatti, sfornato muffin e pancake, fritto melanzane per la parmigiana, scelto con piacere l’Amaro dei Trulli come digestivo.

7. A tal proposito, certifico la vera nota dolente della stagione 2012-2013: ho preso tra i cinque e i sei chili, superando gli 80 chili per la prima volta nella mia vita. E la certifico mentre mangio taralli seduto alla scrivania, dopo aver saltato il pranzo. In questa descrizione c’è sia la domanda che la risposta, e persino un accenno di soluzione del problema. Servirà tanta disciplina.

8. Senza fare troppi giri di parole: il maestrale ha rotto il cazzo.

9. C’è una cosa positiva dell’essere tornati in città: oggi ho ascoltato la BBC in streaming e ho visto qualche video su Youtube senza avere l’ansia che i giga di traffico mensili del cellulare mi lasciassero a piedi da un momento all’altro.

10. Per chiudere: se mi dicessero che esiste un lavoro in cui si deve stare al computer, possibilmente a scrivere (e a studiare, sennò si scrivono cose stupidi o, peggio ancora, inutili), e si può fare in campagna per cinque mesi l’anno (diciamo maggio-ottobre), in cui si può non rispondere mai al telefono (in cambio della garanzia della risposta immediata alle mail), e in cui ci si può svegliare e andare a dormire quando si ha voglia (garantendo in cambio un carico di lavoro tra le 40 e le 50 ore settimanali) stringerei la mano a chi può farlo, complimentandosi con lui per l’ottima scelta.

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19 Lug

La fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare.

(Lewis Hine)

Fotografia del 15 marzo 2013 – Fedora

15 Mar

fedora

 

Ieri sera sono tornato a casa a tutta velocità. Era successo anche due e tre sere fa.

Andavo forte, ma mai così forte quanto Pelè, il nostro gatto nero di casa, alla vista di un boxer con il volto da cucciola e le fattezze di un cane che iniziava a diventare grande. Scese dalla rampa di scale della nostra casa di Valenzano, in cui ci eravamo trasferiti da pochi mesi.

Era la primavera del 2003, papà aveva coronato il suo sogno di lasciare il centro città, andare lontano, nel silenzio, in uno spazio più grande e con il suo giardino. E ne stava coronando un altro: un Boxer. Fedora, sette mesi, la sua solita faccia da schiaffi e la coda che non si fermava mai, scese di corsa. Il gatto, terrorizzato, iniziò a saltare da una parte all’altra della tavernetta e poi scappò via.

Il volto di un boxer, all’inizio, ti disorienta. Non è bello in senso assoluto, per certi versi è persino minaccioso. Ma Fedora ci mise davvero poco a farsi amare, da noi come da Pelè. E noi ci mettemmo pochissimo a trovarla bellissima. Ho scoperto poi che i boxer (e Fedora non ha fatto eccezione) hanno spesso un carattere splendido, e lo hanno potuto scoprire tutte le persone che sono passate da me in questi anni.

Nel frattempo gli anni sono passati. Pelè è caduto durante una delle battaglie con gli altri gatti del circondario, dopo anni di felici scorribande. È seguito Romeo, morto avvelenato sempre al termine di qualche avventura fuori casa, poi Tequila, l’attuale gatto di casa Amenduni. Fedora ha dormito insieme a loro tante volte. Ha giocato, ci ha sporcato di fango, ha corso con me sotto la pioggia per pulirsi le zampette prima di rientrare.

Ha fatto numeri indimenticabili. Il più memorabile fu la scomparsa di un’orata, intera, coperta da un contenitore Tupperware. Il giorno dopo c’era tutto ed era tutto al suo posto. Mancava il pesce, mancavano le lische, mancava ogni traccia. Ci mettemmo dodici ore almeno prima di realizzare che era stata lei a compiere il furto perfetto. Ha masticato (per fortuna non ingoiato) un mio telefono cellulare, ha fatto tante volte la pipì in casa per protesta quando la famiglia Amenduni era fuori per più tempo di quanto lei potesse sopportare.

I boxer sono cani splendidi, ma con una sfortuna grande grande: hanno un’aspettativa di vita più bassa rispetto agli altri canni. Tra i 7 e i 9 anni. Fedora è invecchiata con calma, continuando a giocare fino all’ultimo, con i peli del volto che diventavano via via più bianchi, ha continuato a scappare da casa nostra per andare dai nonni a cercare i biscotti, ha continuato a buttarsi al sole per ore intere, soprattutto durante la primavera, ha continuato ad abbaiare quando sentiva il rumore del citofono (e a scodinzolare tutte le volte, tradendo le sue vere emozioni e smontando subito la sua immagine da cane arrabbiato). E ha continuato a chiedere di uscire ogni volta che mi vedeva. Ero la persona con cui trasgrediva le regole: quando c’ero io, lei sapeva che si poteva uscire più del solito a far la passeggiata fuori.

Nelle ultime 72 ore le sue condizioni fisiche erano precipitate. Non riusciva più ad alzarsi dalla cuccia, il respiro sempre più affannoso. Papà l’ha portata dal veterinario che gli ha detto quello che noi già sapevamo: Fedora stava per morire di vecchiaia. Non ha malattie traumatiche, ma non ha più molto tempo. Abbiamo rifiutato di sopprimerla ed è rimasta in casa, con noi, fino alla fine.

Ieri sera sono tornato a casa a tutta velocità. Appena sono arrivato ho buttato a terra lo zaino e sono sceso di corsa a vedere le sue condizioni. E il caso ha voluto che fossi lì, proprio lì, mentre succedeva. Immobile o quasi, Fedora ha iniziato a fare la pipì addosso. Ho chiamato di corsa mamma e papà per avvisarli. Ci siamo messi tutti e tre lì, a vegliare. Io sarei rimasto lì per tutta la notte se fosse stato necessario. L’agonia, però, è durata pochi minuti. Fedora è morta poco dopo, perdendo sangue dalla bocca. Io e papà l’abbiamo spostata e abbiamo portato il corpo su in giardino. Oggi la seppeliranno, non so bene dove. E poi ci siamo fatti, tutti e tre, (mi scuso per l’espressione dialettale, ma non ne trovo una più efficace) una capa di pianti.

Una capa di pianti per fortuna serena. Fedora è morta naturalmente, di vecchiaia. E abbiamo anche sorriso pensando alla sua ultima scorribanda. 400 grammi di formaggio, rubati dal frigorifero nemmeno una settimana fa, con la complicità del gatto.

Fedora è andata via lasciandomi un unico cruccio: il suo tremendo mal d’auto (vomitava dopo 100 metri di viaggio, sempre) mi ha impedito di camminare con lei per le vie di Bari. Io avrei tanto voluto, perché ero tanto contento che Fedora fosse nella mia vita. Ciao piccola mia.

Fotografia del 3 agosto 2012 – Il quartultimo giorno di scuola

3 Ago

Oggi ufficialmente si chiude la stagione 2011-2012. Nella pratica ci si tiene in allenamento per la successiva.

Di sicuro è stato l’anno più duro da quando lavoro. Duro perché faticoso, duro perché difficile, duro perché la crisi morde, duro perché non sempre si può capire se le cose succedono per merito tuo o demerito tuo, colpa tua o grazie a te.

Non ho mai atteso le vacanze come questa volta. Non saranno lineari come avrei voluto, ma ci sono e tanto basta. Siccome le ho attese tanto, ho una lista molto lunga di cose che vorrei fare durante il mese di agosto 2012. Eccole.

– dormire

– dormire il pomeriggio, qualche volta (variante evoluta della precedente)

– riposare membra e mente a sufficienza per poter affrontare la prossima stagione, certamente ancor più dura della precedente, senza scoppiare a gennaio come le squadre di Zeman

– sperimentare l’assai inusuale sensazione di non essere morto di sonno alle ore 22 e, dunque, riuscire a dire qualcosa di intelligente anche dopo quell’ora

– pranzare all’interno di un edificio usualmente adibito ad abitazione, qualche volta

– leggere Hitchens (e anche Zizek, e anche Gramsci, e anche Turkle, e anche Shirky. Senza perdere d’occhio l’attualità)

– andare al mare alle otto del mattino, come i vecchi

– andare via dal mare al tramonto, come i giovani

– mangiare almeno una volta presso il ristorante ‘Aia Noa’ di Alezio, provincia di Lecce (corollario, mangiare almeno una volta gli spaghetti alla mollica)

– mangiare frutti di mare crudi almeno una volta (se c’è anche la birra artigianale, tanto meglio)

– giocare a poker

– scrivere quasi tutti i giorni

– andare almeno ad almeno tre concerti

– prendere decisioni su cosa fare nella stagione 2013-2014, quelli in cui arriverò ai trent’anni e, in ogni caso, si chiuderà inevitabilmente un pezzo di vita (dubito di poter prendere decisioni nette prima di allora)

– sperimentare quel dispositivo sociale pomeridiano universalmente riconosciuto come ‘aperitivo’, qualche volta

– sentirmi in colpa almeno una volta al giorno pensando a chi non è in vacanza

– seguire le due scadenze di lavoro che mi culleranno in riva al mar

– guidare con il sole che ti acceca

– perdermi mentre guido, con moderazione

– ascoltare più musica possibile, meglio se mentre si guida

– fare qualche brainstorming serio, ma con i piedi nella sabbia

– fare tutte queste cose con le persone giuste (bastano le dita delle mani)

– andare a VeDrò

– giocare almeno un’altra partita di pallone col Katenaccio, al netto dello sport scadente da spiaggia

– aggiungere in corso d’opera altri punti che ho certamente dimenticato, senza farmi prendere dall’ansia per come mi sono auto-farcito questi giorni di pausa

— Aggiunte —

– studiare per l’asta del Fantacalcio

– indossare almeno una volta una felpa a manica lunga

Fotografia del 27 luglio 2012 – Gli spaghetti con le cozze

27 Lug

Ore 1.45 AM: mode on

Sono in ufficio dalle 9.30. Ho fatto una pausa pranzo più lunga per infilarci una riunione. Domani sveglia alle 8, si va di corsa a un dibattito, e soprattutto si va di corsa da un amico. Prima di andar via, però, volevo scrivere una cosa.

In questi giorni tutti sballati, tra la revisione dell’auto, le tasse da pagare e soprattutto le riunioni necessarie a capire quanti e quali slot dell’agenda e del cervello devono essere ancora riempiti per la stagione 2012-2013 (la risposta è: pochi, molto pochi), si inizia in modo quasi automatico a fare un bilancio di ciò che è stato e soprattutto a misurare te stesso nelle aspettative di ciò che sarà.

Chi legge questo blog sa che ho fatto un piccolo percorso personale che a un certo punto mi ha portato a sostenere pubblicamente che il mio carattere e il mio modo di vivere sono incompatibili con quasi tutte le tradizionali aspirazioni di carriera. Insomma, il rischio (o il privilegio) è di rimanere per tutta la vita in provincia a combattere.

La prospettiva, per molti, rappresenta un elemento di terrore ma soprattutto una spia di un presunto fallimento esistenziale. Siamo così tanto impegnati a definire la nostra identità dentro il reddito, lo status, il come ci vestiamo, il cosa compriamo da aver dimenticato perché viviamo, qual è il senso, o l’obiettivo, della vita degli esseri umani.

So di essere ipersemplificativo, ma credo che ognuno di noi dovrebbe vivere per essere felice. Con la parola ‘felicità’, in realtà, ho un rapporto abbastanza conflittuale (così come con la parola ‘amico’, che prima ho usato con una naturalezza che dovrebbe farmi riflettere). Per me la felicità è un modo ragionevole di definire quei momenti (molto, molto brevi) che nella vita di ciascuno di noi possono accadere, che spesso suggellano il punto di arrivo di un percorso o il punto di partenza verso un nuovo orizzonte.

Non è difficile comprendere che lavoro, potere, denaro, realizzazione personale siano componenti che concorrono al raggiungimento della felicità. Il corto circuito, però, avviene se si fa coincidere la felicità esclusivamente con il raggiungimento di traguardi all’interno di questa sfera di priorità.

Da settimane rifletto su come conciliare la scoperta dei miei limiti (dentro questo sistema) con il naturale perseguimento del proprio obiettivo di vita, cioè la felicità. In sintesi mi sto ponendo questo interrogativo: se so già che farò molta fatica a raggiungere certi traguardi, come farò a essere felice?

Alla risposta (provvisoria, come tutte le conclusioni a cui si arriva nella vita e nel ragionamento attorno a essa) ci sono arrivato per negazione. Ho modificato la domanda e ho ragionato in negativo: senza cosa non sarei felice?

In cima alla lista, oggi, c’è un piatto di spaghetti con le cozze. Un piatto di spaghetti per due persone, preparato in casa, costa 2.3€. La felicità è a soli due euro e trenta di distanza. Almeno per me.

Questa consapevolezza, per me potentissima, mi ha liberato da un’infinità di strutture: la necessità di guadagnare sempre di più, la necessità di fare cose ‘fighe’, la necessità di accettare compromessi inaccettabili pur di star dentro le prime due necessità. Lo spaghetto, per certi versi, mi sta aiutando con il processo progressivo di emancipazione insieme a Hitchens, al sonno che mi fa prendere decisioni migliori e, perché no, a questo blog.

Ho continuato a ragionare per negazione. Non sarei felice se non potessi dire la mia, sempre. Non sarei felice se non potessi vedere il mare. Non sarei felice se non potessi continuare a fare il cazzone durante le fasi serie della mia vita. Non sarei felice se i miei dovessero vergognarsi di me. Non sarei felice se diventassi inaccessibile. Non sarei felice se mi impedissero di scrivere. Non sarei felice se una volta ogni tanto non potessi fare nottata in ufficio. Non sarei felice se non potessi guidare, se non potessi leggere, se non potessi ascoltare musica.

Adesso posso guardare in faccia la realtà con quella giusta dose di strafottenza (ah, quanto mi piace questa parola) necessaria a non prendersi troppo sul serio, a guardare alla vita con serenità, tenendo a mente la differenza tra la felicità e il successo. Una differenza che, troppo spesso, ignoriamo.

Adesso posso guardare in faccia la realtà. Con il mio piatto di spaghetti tra le mani.

Ore 2.08 AM: mode off