
La foto che vedete è di dieci giorni fa.
Quella è una valigia, la mia valigia con i vestiti ancora dentro. In camera mia, a casa. E lui è Tequila.
Quattro giorni prima un veterinario gli aveva diagnosticato la leucemia felina e ci aveva detto che sarebbe morto di lì a poco. L’avevamo portato dal veterinario solo una settimana prima, perché aveva gli occhi rossi. Fino a un mese prima non aveva dato alcun segno di malessere. Non sappiamo come abbia preso il virus, forse il contagio è avvenuto alla nascita, dalla madre. La leucemia felina, infatti, può restare silente per anni.
Tequila è morto qualche ore fa, stamattina alle 5. Questi ultimi giorni con lui sono stati un’esperienza emotivamente fortissima. Tequila ha smesso di mangiare, lo abbiamo alimentato con le flebo finché abbiamo potuto. E piano piano ha smesso di miagolare, poi di muoversi. Ieri notte l’ho trovato in bagno, testa bassa, immobile. Ho subito realizzato che non avrebbe avuto molto da vivere.
Quando ti dicono che un animale è un morto vivente e che non ci sono possibilità di salvarlo, non c’è molto da fare. Il primo pensiero che ti passa per la testa è: come faccio a non farlo soffrire? Il secondo è: come è giusto comportarsi in questo caso? E infatti questa mattina, parlando al telefono con mamma che si è dovuta svegliare e andare a lavorare con questa enormità nel cuore, si parlava di questo, del fatto che non lo abbiamo soppresso e che, almeno apparentemente, non ne ha sofferto troppo.
Tequila non poteva muoversi in modo del tutto libero per casa (la nostra casa è una villetta di provincia su tre piani), ma aveva piena disponibilità della tavernetta, che poi è il posto dove la famiglia passa il grosso del suo tempo. Dunque era sempre con noi. In questi ultimi giorni, proprio perché erano gli ultimi, abbiamo rotto questa regola. Il gatto è stato libero di girare per casa e anche nel giardino, e questa libertà è stata contemporaneamente la nostra gioia e il nostro strazio, le nostre lacrime di tristezza e quelle di commozione.
Ogni notte, tornando a casa, andavo da lui e papà e ogni volta ci inventavamo qualcosa di diverso. Perché ci siamo subito resi conto di una cosa: Tequila smetteva di vivere ogni giorno di più, ma si accendeva improvvisamente non appena trovava uno spiraglio, una porta aperta, un posto nuovo dove stare. E soprattutto, si accendeva quando tutto questo vedeva anche noi come protagonisti. Una settimana fa abbiamo aperto la porta della tavernetta e lo abbiamo seguito. È andato di corsa (sì, di corsa: con chissà quali energie) sul lettone dei miei, si è piazzato accanto a mamma, ha messo la testa sul suo corpo, e ha iniziato a fare delle fusa che ricorderò per tutta la vita. Con me e papà, ovviamente, a piangere come fontane.
Avantieri, sotto il diluvio, abbiamo lasciato per sbaglio la porta esterna aperta. Tequila da immobile è diventato improvvisamente scattante, ho dovuto inseguirlo e ho fatto sinceramente fatica per riportarlo a casa. E mi ha fatto ridere un sacco. Ci ha fatto ridere e piangere fino all’ultimo.
Credo che Tequila mi volesse bene. Questa foto scattata da mia sorella mi ha ovviamente scosso. In questi giorni di libertà andava spesso a dormire in camera mia. E io, brutto pezzo di merda, non c’ero perché non ci sono mai. Ci sono la mattina presto, però. E lui, ogni mattina, a qualsiasi ora io decidessi di svegliarmi, era lì, a miagolare senza fine perché voleva che io gli dessi da mangiare. Lo faceva sempre, comunque, anche se aveva già mangiato. Bastava andare in frigo, prendere la scatoletta e rovesciargliela nella sua ciotolina, e lui si calmava. Dopo dieci minuti attaccava a fare le fusa più forti della giornata.
Ora la nostra casa è più vuota. Sei mesi fa è morta Fedora, oggi Tequila. Un anno fa non c’era alcun segnale che tutto ciò potesse accedere. Il cane e il gatto andavano d’amore e d’accordo, dormivano insieme, giocavano insieme. È da quando abbiamo saputo che sarebbe morto di leucemia che sto pensando a cosa sia giusto fare adesso, se ha senso provare subito a riempire quel vuoto con un nuovo animale, o se è più sensato far passare del tempo, ma con il rischio che poi quel vuoto non si riempia mai più. Alla fine ho realizzato che non è una decisione che devo prendere io, perché io non pulisco la lettiera, non compro da mangiare, non accudisco, non ci sono, se non al mattino presto e alla sera tardi (e neanche sempre). Ma sono pronto a parlarne con i miei per tutto il tempo che vorranno, per prendere la decisione migliore per la nostra famiglia.
Ho lasciato Fedora con un cruccio enorme: non averla portata in giro per Bari, a causa del suo incrollabile mal d’auto che la portava a vomitare dopo la prima curva, anche a stomaco vuoto.
Lascio Tequila con un cruccio ancora più grande: avrò detto cento volte, anche a lui, che mi sarei preso un giorno di ferie e lo avrei passato sul divano letto a fargli le coccole. Non l’ho mai fatto. E adesso non posso più rimediare.
Questa è una lezione severissima. Il 2013, che tra l’altro deve ancora finire, è stato un anno intensissimo. Doveva essere l’anno della qualità (ogni anno mi do un obiettivo “esistenziale”) e per certi versi ho raggiunto l’obiettivo: con disciplina e metodo ho tagliato un po’ di cose inutili, gestisco meglio il mio tempo, faccio cose sempre più difficili e continuo a divertirmi. Ma il fatto che io non abbia avuto il tempo per il mio gatto, e dunque per me stesso, mi dice chiaramente che questo 2013 è stato un anno “troppo”.
Troppo lavoro.
Troppi viaggi.
Troppo stress.
Troppe parole.
Troppi incontri.
Troppo poco sonno.
Troppi weekend saltati per aria.
Troppe urgenze.
Troppe cose che non devo fare più.
Devo darmi una regolata.
Ciao Tequila, ti voglio bene. Morendo mi hai insegnato a vivere.
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