Dubitare di tutto o credere a tutto sono due soluzioni egualmente comode che ci dispensano, l’una come l’altra, dal riflettere.
(Jules Henri-Poincaré)
Dubitare di tutto o credere a tutto sono due soluzioni egualmente comode che ci dispensano, l’una come l’altra, dal riflettere.
(Jules Henri-Poincaré)
(Pietro Ingrao)
(Gilles Deleuze)
Non mi era mai capitato di rivedermi durante una lezione. Eccoci qua.
La comunicazione è una parola precaria.
Lavorare nella comunicazione vuol dire accettare l’idea di convivere con una precarietà ‘esistenziale’. Può essere commerciale, istituzionale o politica: cambia poco. Bisogna avere una buona idea, spesso più di una. In tempi spesso stretti. Non si può dire ‘non lo so fare’, bisogna provarci.
Ogni volta che si è chiamati a fare il proprio lavoro, si entra in una dimensione precaria. A stimolo non sempre corrisponde risposta uguale, e l’incertezza è la porta di accesso privilegiata alla precarietà.
La creatività non è quasi mai una linea retta, soprattutto se si considera che la buona comunicazione non è quella ‘bella’ o memorabile, ma quella che produce cambiamento, qualsiasi cambiamento, dalla cinica attivazione del comportamento d’acquisto all’ideale attivazione sociale per il bene comune.
La buona idea, poi, neanche basta. La buona comunicazione è quella che sa estrarre la creatività da uno spazio chiuso, quello dei dati statistici, degli obiettivi di marketing e delle aspettative del tuo interlocutore. Bisogna sperare che piaccia al cliente e che non cambi idea in corsa. Bisogna essere pronti a cambiare, sempre. Anche controvoglia. E soprattutto bisogna essere pronti ad accettare l’idea di dover rimescolare le carte più e più volte. Perché cambia il contesto, o il mercato, e dunque le idee possono diventare rapidamente, e improvvisamente, vecchie.
I comunicatori sono precari di mestiere, ed è facile immaginare quanto questo possa essere vero nei periodi di crisi economica. Quali sono le prime spese che un’azienda taglia? Quelli (apparentemente) non necessari: la ‘pubblicità’, perché prima ci sono gli stipendi dei dipendenti e i fornitori da pagare. Meno soldi, più ansia, più fretta, più vincoli, più precarietà.
Il comunicatore precario per eccellenza è, però, il comunicatore politico. Si può vincere le elezioni senza alcun merito, se il candidato con cui si lavoro è favorito o se l’avversario è debole. E in quel caso, nessuno ti riconoscerà (giustamente) alcun merito.
Il rovescio della medaglia, però, è che si può perdere senza alcun demerito, magari dopo una rimonta clamorosa che si ferma, però a un passo dal traguardo. E a quel punto la bravura, la buona idea, l’approvazione del politico non bastano. Hai perso. E diventi come gli allenatori che arrivano secondi: precari, se non addirittura disoccupati.
(testo scritto per il libro ‘Senza Paracadute – Diario tragicomico di un giornalista precario’ di Antonio Loconte)
(Peter Drucker)
Oggi, per instaurare un regime, non c’è più bisogno di una marcia su Roma né di un incendio del Reichstag, né di un golpe sul Palazzo d’Inverno. Bastano i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa: e fra di essi, sovrana e irresistibile, la televisione. […]
(Indro Montanelli, 1994)
(Carlo Freccero)